Mi ritiro dalla vita pubblica senza lasciare niente in sospeso. E, soprattutto, senza il rimorso di aver turbato quell'ordine "democratico" che dal 1945, regola la vita economica e morale della nazione. Ho la franchezza di riconoscerlo: io, in questa nuova Italia, mi sono comportato sempre da "sovversivo" e abusando della libertà di stampa, ho sempre detto ciò che pensavo io invece di dire - come sarebbe stato mio preciso dovere di cittadino rispettoso dell'ordine - ciò che pensavano gli uomini inviati dalla provvidenza a reggere e governare il paese.
Monarchico in una repubblica, di destra in un paese che cammina decisamente, inflessibilmente, verso sinistra. Sostenitore dell'iniziativa privata in tempi di statalismo, assertore dell'unità in tempi di regionalismo. Cattolico intransigente in tempi di democristianismo, io non sono stato - come poteva sembrare - un "indipendente" bensì un "anarchico". Non "uomo libero", ma "sovversivo". E perciò, è giusto che mi venga tolta la parola e la libertà. Tra poche ore, io varcherò la soglia della tetra casa del silenzio e la porta ferrata si chiuderà alle mie spalle. Un sovversivo "va dentro" e ciò è bello e confortevole per gli uomini dell'ordine democratico. Ma bisogna pur dirlo, troppi sovversivi rimangono ancora fuori. Troppi, perché non sono migliaia, ma milioni, sparsi in ogni contrada d'italia. E il sovversivo che entra in carcere lo sa e malvagiamente, se ne rallegra. Per questo il "sovversivo", varcando la tetra casa del silenzio, ride sotto i baffi.
Giovannino Guareschi, 1954
Giovannino Guareschi (1908-1968) scrisse questa lettera quando fu condannato per l'accusa di diffamazione a seguito della pubblicazione sulla sua rivista, il Candido, di due lettere attribuite ad Alcide De Gasperi, risalenti al 1944 (nel dicembre 1944 De Gasperi era stato nominato Ministro degli Esteri nel governo guidato da Ivanoe Bonomi; nel dopoguerra divenne Presidente del Consiglio), in una delle quali si chiedeva agli alleati anglo-americani di bombardare la periferia di Roma allo scopo di demoralizzare la popolazione ed indurla ad atti ostili contro i tedeschi (il giudice non accolse la mozione della difesa di Guareschi, che chiedeva che queste lettere fossero sottoposte a perizia calligrafica). Guareschi pagò duramente questa condanna con tredici mesi di prigione e sei di libertà vigilata, dovendo scontare anche una precedente condanna subita nel 1950 per la pubblicazione sempre sul Candido di vignette ritenute diffamanti nei confronti del Presidente Einaudi. Entrò nelle Carceri di San Francesco a Parma il 26 maggio 1954. Alla vigilia della scadenza del termine per ricorrere in appello andò a trovarlo, inatteso, il Presidente del Consiglio di allora, Mario Scelba: Guareschi non lo volle ricevere, ma questi aspettò tre ore prima di andarsene.
"No, niente Appello. La mia dignità di uomo libero, di cittadino e di giornalista libero è faccenda mia personale e, in questo caso, accetto soltanto il consiglio della mia coscienza. Riprenderò la mia vecchia e sbudellata sacca di prigioniero volontario e mi avvierò tranquillo e sereno in quest’altro Lager. Ritroverò il vecchio Giovannino fatto d’aria e di sogni e riprenderò, assieme a lui, il viaggio incominciato nel 1943 e interrotto nel 1945".
"Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione"
(Dal Candido del 23 aprile 1954)
"L'uomo candido"di Piero Vietti
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