mercoledì 6 maggio 2009

Chi fa la spia non è figlio di Maria

Si è detto: no ai medici-spia. "Da cittadino italiano, che paga le tasse, se vado al pronto soccorso con una ferita da taglio non solo mi chiedono le generalità, ma anche come me la sono procurata. Se racconto balle, se sono in stato confusionale, se me ne resto zitto, arriva la polizia. C’è di più, perché se mi presento, ad un qualsiasi medico, affetto da specifiche patologie infettive, quello deve segnalarmi all’autorità, perché così prevede la legge. Non è che facciano le spie, è il loro dovere a salvaguardia della collettività. Nessuno s’è mai lamentato o sentito privato dei propri diritti."

Si è detto: no ai presidi-spia. "Se, da cittadino italiano, che paga le tasse, iscrivo un figlio a scuola devo identificarmi e devo dire dove abito esattamente, perché l’istituto pubblico valuta se ho titolo ad accedere in quel posto o me ne indicano un altro. Non basta: mi chiedono anche quanto guadagno, perché, come nel caso di nidi e materne, c’è una precedenza in base al reddito (il che, purtroppo, favorisce gli evasori fiscali). Un immigrato, magari clandestino, ha maggiori diritti di me? L’istruzione non è solo un diritto, ma anche un dovere. Chi ha figli minori non solo può, ma deve mandarli a scuola. Vale per tutti. Ma se affermo che ai figli dei clandestini devo garantire la scuola è come dire che mi tengo anche i genitori, che cessano d’essere clandestini."
(i brani in corsivo sono liberamente tratti da:http://davidegiacalone.it/index.php/politica/le_spie_della_pochezza)
Si dice: tutto nasce dalla volontà di introdurre il reato di immigrazione clandestina e dalle conseguenze ed implicazioni pratiche della sua introduzione. "Leggi razziste" tuona Franceschini.

Uno stato veramente giusto è quello che sa garantire uguali diritti a ciascun cittadino, ma sa altresì pretendere da tutti i suoi cittadini uguali doveri. Un immigrato che si trova irregolarmente nel paese ospitante, evidentemente non è soggetto ai doveri di qualsiasi altro cittadino (immigrati regolari compresi); è veramente giusto che debba beneficiare degli stessi diritti dei cittadini comuni (a volte, addirittura, in qualità proprio della loro condizione disagiata di irregolare, beneficiarne al loro posto: scuole, case, assistenza sanitaria, servizi pubblici)?

Questa, più che giustizia, può semmai essere considerata solidarietà universalistica. Nobilissima. Ma con aspetti paradossali e contrastanti. Uno stato, che non riesce a garantire condizioni minime di eguaglianza e di giustizia sociale per i propri cittadini (un lavoro stabile, il diritto alla casa, per esempio), può pensare di sobbarcarsi anche il peso del sostegno ai suoi cittadini irregolari? Dal punto di vista umanitaristico questo può avere senz'altro un senso, ma dal punto di vista pratico della gestione delle risorse pubbliche (sostenute dai suoi cittadini regolari), soprattutto in relazione dei suoi cittadini regolari indigenti, ce l'ha ancora? E se non possiamo garantire a coloro i quali vogliono immigrare nel nostro paese un lavoro, una casa, delle condizioni minime di sussistenza (cosa che purtroppo accade anche a numerosi cittadini italianissimi), dobbiamo comunque concedere loro di rimanere? Con quali conseguenze? Non c'è il rischio, con un atteggiamento troppo 'aperto' e lassista, di compromettere la reale integrazione di tutti gli immigrati regolari, vecchi e nuovi, che lavorano, pagano le tasse e che avrebbero tutto il diritto di essere considerati e trattati da cittadini come tutti gli altri, ma che sarebbero loro per primi danneggiati da una incontrollato aumento del numero degli irregolari?

Fuorviante è anche il paragone che si fa tra l'immigrazione irregolare attuale con quella degli migranti italiani di un secolo fa nel continente americano. Costoro si assoggettavano al cento per cento, anche in forme molto degradanti, alle leggi degli stati dove sbarcavano: si facevano identificare, subivano la quarantena sanitaria,
dovevano sottoporsi ad una valutazione della loro volontà di andar in quel paese straniero per lavorare, nel rispetto delle loro leggi. Dopodiché, e non sempre, potevano effettivamente sbarcare sul suolo della terra ospitante (che li accettava perché in quell'enorme paese c'era la possibilità, oltre che la effettiva necessità, di immigrazione di mano d'opera). Si dirà: altri tempi.
Provate oggi a chiedere di poter espatriare in Nuova Zelanda o in Australia: paesi razzisti anche loro?


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