sabato 28 marzo 2009

RICOLFI: IN ITALIA SOLO DUE CONSERVATORISMI

Da oggi Forza Italia e Alleanza nazionale non ci sono più, e al loro posto esiste un unico partito della destra, il Popolo della Libertà: lo sta creando ancora una volta Silvio Berlusconi, che proprio ieri - davanti a una platea entusiasta - ha inaugurato a Roma la tre giorni che sancirà la definitiva unificazione fra il partito del premier e il partito del presidente della Camera. Ha fatto bene Berlusconi, ha fatto bene Fini. Soppesati i pro e i contro, la fusione fra Forza Italia e Alleanza nazionale mi sembra un evento positivo un po’ per tutti. È positivo per il partito di Fini, altrimenti votato a un destino di subalternità a Forza Italia: a differenza della Lega, An non ha un insediamento territoriale forte, né alleati possibili diversi da Forza Italia. È positivo per il partito di Berlusconi, perché senza la «trasfusione di militanza» assicurata dai nuovi venuti, Forza Italia correrebbe il rischio di un drastico ridimensionamento al momento dell’uscita di scena di Berlusconi. È positivo per l’Italia, perché in un contenitore unico le (modeste) differenze ideologiche e programmatiche fra i due principali partiti della destra avranno più possibilità di esprimersi su un piano puramente politico, anziché essere artificiosamente amplificate a fini elettorali (come è successo, ad esempio, in materia di sicurezza).

Tanto più che, proprio per il carisma di Berlusconi, tali differenze non avranno il potere paralizzante che le differenze hanno invece sempre avuto a sinistra, dove la divisione fra sinistra riformista e sinistra estrema ha abbattuto due governi Prodi (nel 1998 e nel 2008), mentre le «diverse sensibilità» interne al neonato Pd sono bastate a far naufragare un progetto covato oltre un decennio. Che un solo partito sia meglio di due non significa, tuttavia, che il quadro politico che esce dalla festa di questi giorni sia particolarmente incoraggiante per il Paese. Il partito democratico di Veltroni e Franceschini ha già dimostrato ampiamente di non essere il partito riformista, coraggioso e liberale, che le sue migliori intelligenze hanno sognato per anni. Ma il Pdl non sembra dare molte garanzie in più. Alleanza nazionale non è mai stato un partito modernizzatore, Forza Italia lo è stato per una decina d’anni, fino a quando - complice il ristagno economico e l’intransigenza sindacale - ha capito che spingersi troppo in là sulla strada delle riforme avrebbe compromesso le basi del proprio consenso elettorale. Non a caso, in questi giorni, la definizione del nuovo partito più ascoltata è stata «casa dei moderati», un’etichetta impensabile quindici anni fa, quando Forza Italia sembrava promettere una rivoluzione liberale (un impegno ritualmente evocato da Berlusconi anche ieri, ma reso poco credibile dalle promesse mancate del 2001-2006, per non parlare delle pulsioni stataliste di oggi). La realtà, purtroppo, è che le forze che puntano sulla modernizzazione dell’Italia sono in minoranza sia nel Paese sia in Parlamento, e lo sono da sempre. C’è stata, è vero, una breve stagione, grosso modo il decennio 1994-2004, nella quale sia la destra sia la sinistra hanno provato a modernizzare l’Italia, ma quella stagione - vista nella prospettiva della lunga durata - è stata come un breve squarcio di sole in una giornata nuvolosa. La nostra cultura politica resta, nonostante ogni velleità modernizzatrice, fondamentalmente figlia delle tre grandi ideologie del secolo scorso, il comunismo, il fascismo, il cattolicesimo. Oggi la patina ideologica si è ritirata quasi completamente, come un ghiacciaio sciolto dall’effetto serra, ma la scorza più dura - fatta di statalismo, dirigismo, paternalismo - è ben in vista, e si sta anzi irrobustendo: la crisi economica aumenta la domanda di protezione e di tutela, mentre la libertà individuale sta diventando una sorta di bene di lusso, che viene dopo la sicurezza economica e personale. Se lasciamo perdere i soliti schemi astratti - destra e sinistra, laici e cattolici - e guardiamo a quel che i partiti sono effettivamente diventati nella seconda Repubblica, il quadro che l’elettore ha di fronte non è dei più ricchi. Tutti i partiti, compresa la Lega, sono impegnati innanzitutto a tutelare il potere degli amministratori locali, e si oppongono tenacemente a qualsiasi norma che rischi di ridurre le risorse a loro disposizione, o di diminuire il loro potere di nomina: non per nulla né il centro-sinistra né il centro-destra hanno avuto il coraggio di varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali, non per nulla il federalismo fiscale è stato progressivamente annacquato per venire incontro al ceto politico dei territori più spreconi. Quanto ai due maggiori partiti, il Pd e il Pdl sono entrambi - oggi - due partiti conservatori di massa, che si differenziano fra loro essenzialmente per gli interessi verso cui hanno un occhio di riguardo: la sinistra non ha la minima intenzione di disturbare la sua base sociale, fatta di pensionati e lavoratori «garantiti», la destra non ha la minima intenzione di disturbare la propria, fatta di partite Iva, ceti professionali, imprenditori. La sinistra non avrà mai il coraggio di riformare il mercato del lavoro, sfidare i sindacati, abbandonare le corporazioni dei magistrati, degli insegnanti, dei professori universitari. La destra non avrà mai il coraggio di combattere l’evasione fiscale, estirpare il lavoro nero, liberalizzare il commercio e le professioni, difendere i consumatori contro gli abusi delle imprese, grandi o piccole che siano. Così le cose buone che piacerebbero agli uni sono destinate a restare lettera morta per il veto degli altri. E viceversa. Possiamo pensare che sia un male, perché l’Italia avrebbe bisogno d’innovazione più che di conservazione dell’esistente. Si può pensare anche, tuttavia, che la comune ispirazione conservatrice della destra e della sinistra non sia altro, in fondo, che l’espressione politica di quel che noi stessi siamo. Un popolo in cui l’aspirazione al cambiamento si manifesta a ondate improvvise, come ribellismo anarcoide, su un sottofondo costante, duraturo, pietroso fatto di particolarismo, di tenace attaccamento ai nostri interessi immediati, individuali e di gruppo. Se questo è ciò che siamo, non deve stupire che - da noi - le forze del cambiamento siano minoranza sia a destra sia a sinistra, e che alla fine della storia, dopo un quindicennio di seconda Repubblica, la competizione politica fondamentale sia diventata una sfida fra due conservatorismi. Ancora un anno e mezzo fa avevamo Ds, Margherita, Forza Italia, An. Oggi abbiamo solo Pd e Pdl. Non è un passo indietro, perché le differenze che le due grandi fusioni cancellano - fra Ds e Margherita, fra An e Forza Italia - erano marginali, talora persino artificiose, mentre Pd e Pdl sono due partiti realmente diversi, per visione del mondo, per mentalità, per priorità politiche. Ma non è neppure un grande passo avanti, perché sono diversi soltanto per le cose che vogliono conservare. Così, chi vuole un vero cambiamento non sa chi votare, e chi vuole votare non può aspettarsi un vero cambiamento.
Luca Ricolfi
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