"L'architettura globale"
di Marc Augé
Oggi i nomi dei grandi architetti sono conosciuti quasi quanto quelli dei grandi calciatori. L'architettura ha raggiunto uno status molto particolare. C'è il rischio che la torre progettata da Jean Nouvel a Manhattan sia ridotta di qualche metro? La stampa insorge.
Un'azienda vinicola vuole aumentare il prestigio dei suoi bordeaux? Chiede all'architetto della cattedrale di Evry di progettare la sua nuova cantina. S'inaugura un museo a Bilbao o a Chicago? Folle di persone accorrono, attirate più dall'edificio che dal suo contenuto.
Gli architetti più noti sono celebrati nel mondo intero: molte città di media importanza cercano di convincerne almeno uno a costruire qualcosa dalle loro parti, perché così conquisterebbero una dignità turistica internazionale. Quali sono le cause e le conseguenze di questo entusiasmo?
Bisogna innanzitutto sottolineare che le opere dei grandi architetti hanno sempre espresso e rafforzato i rapporti di potere nella società. Oggi l'architettura spettacolare dei quartieri finanziari statunitensi e dei loro equivalenti europei - torri che svettano nel cielo diurno avvolte nel bagliore delle loro facciate, o che rischiarano il cielo notturno con le lucenti trasparenze dei loro uffici perennemente illuminati - rappresenta nel modo più esplicito il potere delle aziende.
Le grandi imprese che aprono una sede in una di queste torri lo fanno prima di tutto per una questione d'immagine, parola magica e affascinante che per molti riassume tutto quel che siamo in grado di conoscere del mondo in cui viviamo. Certo, lo fanno anche per offrire buone condizioni di lavoro ai loro impiegati. Ma anche queste sono una questione d'immagine. Gli open space non sono luoghi di libertà dove lo sguardo può spingersi fino all'orizzonte attraverso vetrate immense: sono luoghi dove ognuno è prigioniero dello sguardo degli altri, in un ambiente rigorosamente gerarchizzato come quello aziendale. Non a caso gli alti dirigenti hanno uffici separati.
I musei, invece, concepiti come opere d'arte, tendono a mettere in secondo piano gli oggetti, le collezioni e le mostre che ospitano. I turisti sono davvero interessati a quello che vedranno al Guggenheim di Bilbao? Oggi un museo nuovo non è solo la struttura creata per esibire degli oggetti artistici o storici, è il piatto forte della mostra.
Dietro la polemica tra etnologi e amanti dell'arte scatenata dal musée du quai Branly di Parigi, inaugurato nel 2006, c'era un altro dibattito, implicito, sul ruolo dell'architettura. Il modo in cui un architetto museale decide come esporre gli oggetti rischia di essere soprattutto un modo di interpretarli. Immergere dei manufatti africani nella penombra, per esempio, vuol dire suggerire qualcosa di vago e ineffabile più che esaltarne il valore estetico.
C'è chi parla di "cultura del progetto" per descrivere gli architetti che si contendono i progetti finanziati dallo stato, dagli enti locali o dai privati. Esaminando le proposte dei diversi partecipanti ci si accorge subito che, oltre a fornire i dati tecnici dell'appalto, tendono a enfatizzare il significato dell'edificio progettato.
È inevitabile. Immaginate cosa succederebbe se si chiedesse ai romanzieri o ai saggisti di commentare i loro libri per ottenere il permesso di scriverli: sarebbe il trionfo dell'eloquenza! È proprio questa la condizione degli architetti. Inutile stupirsi, quindi, se nei loro progetti s'insidia pericolosamente la metafora. Le polemiche sull'importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un'epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell'architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala. Che sia locale o globale, il contesto è solo il pretesto per creare metafore che hanno come unico referente l'architettura stessa. Per dirla con Rem Koolhaas: "Fuck the context!".
Il mondo sta diventando un'immensa città e il potere demiurgico dell'architetto è un segno dei tempi. Esegue un appalto, certo, ma questa è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza. La retorica dei suoi discorsi serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l'ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia, forse ne è addirittura l'espressione più spettacolare e, a volte, sfarzosa.
Capire dove ci sta portando il cammino della storia, naturalmente, è un'altra faccenda. La questione degli alloggi offre un esempio di questa incertezza. In Europa, in particolare in Francia, è apparsa la categoria dei "senza fissa dimora", più numerosa di quella dei disoccupati. Tra i senzatetto ci sono infatti persone che lavorano ma non guadagnano abbastanza per pagarsi un tetto. Chi invece ha un alloggio e un lavoro deve adattarsi a una forma di crescita urbana che spesso lo condanna a ore di spostamenti quotidiani, in una città ormai priva di senso urbanistico.
A confronto con il nostro tempo.
Quando un luogo è colpito da una catastrofe, le unità anticrisi entrano in azione per fornire alle vittime un alloggio provvisorio. In Europa la maggior parte degli immigrati irregolari, e molti di quelli in regola, vive in condizioni abitative terribili. In Francia ci sono stati molti tragici incidenti in edifici residenziali che non rispondevano alle norme minime di sicurezza.
Appena scoppia un conflitto nel mondo, la televisione ci sbatte sotto gli occhi case in rovina, esodi di massa, campi di rifugiati. Ed è evidente che in tutte le grandi città del pianeta la frattura tra i più ricchi e i più poveri si esprime in termini geografici e architettonici. Le baraccopoli che credevamo di aver eliminato negli anni sessanta hanno ricominciato a svilupparsi. La metafora della giungla fa ormai parte dell'attualità, ma la cosa sembra non colpire nessuno.
Al tempo stesso la smania di costruire si manifesta un po' ovunque, in particolare nei paesi emergenti: in Cina spuntano senza sosta edifici giganteschi, ma l'architettura fatica a seguire il ritmo sfrenato dell'urbanizzazione e della demografia. Mi tornano in mente le magnifiche e spaventose immagini del bel film di Gianni Amelio La stella che non c'è.
Un altro problema è come conciliare gli eccessi dell'architettura e il risparmio energetico, che è diventato una priorità ufficiale anche nei progetti edilizi. I cosiddetti edifici "intelligenti" divorano enormi quantità di energia.
È strano: l'architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta. Li insegue senza mai riuscire a controllarli. I "grandi architetti" sono più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli quest'ambizione?) che dall'idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall'urbanizzazione mondiale.
L'esempio di Le Corbusier dovrebbe spingere alla prudenza: il maestro, con il suo ideale dell'alloggio autosufficiente, il suo rifiuto della città storica e la passione per la tabula rasa, ha fatto molti danni. Oggi i suoi testi, insieme ad altri sogni, sono diventati quei "grandi racconti" utopici di cui Jean-Francois Lyotard celebrava la scomparsa. Ma è forse un motivo per ascoltare solo le sirene del liberismo, il cui "grande racconto" sembra altrettanto malmesso?
Sarebbe bello se gli architetti rifiutassero di presentare progetti che, in fondo, sono di seconda mano. Se avessero le loro opinioni e le esprimessero. Se si decidessero a prendere la parola. Se i più famosi non si limitassero a fare l'esegesi delle loro opere e a esprimersi con grande retorica, ma formulassero delle proposte sugli alloggi in città, su come affrontare l'emergenza pensando anche sul lungo periodo. In altre parole, se fossero loquaci quanto gli intellettuali che su questi argomenti hanno accumulato più chiacchiere che esperienza. Più ammiriamo gli architetti e più speriamo che riescano a liberarsi dalla cultura del progetto, da una forma di pensiero "a breve termine" imposta dal consumismo. E che tornino a essere dei visionari del mondo.
Un'azienda vinicola vuole aumentare il prestigio dei suoi bordeaux? Chiede all'architetto della cattedrale di Evry di progettare la sua nuova cantina. S'inaugura un museo a Bilbao o a Chicago? Folle di persone accorrono, attirate più dall'edificio che dal suo contenuto.
Gli architetti più noti sono celebrati nel mondo intero: molte città di media importanza cercano di convincerne almeno uno a costruire qualcosa dalle loro parti, perché così conquisterebbero una dignità turistica internazionale. Quali sono le cause e le conseguenze di questo entusiasmo?
Bisogna innanzitutto sottolineare che le opere dei grandi architetti hanno sempre espresso e rafforzato i rapporti di potere nella società. Oggi l'architettura spettacolare dei quartieri finanziari statunitensi e dei loro equivalenti europei - torri che svettano nel cielo diurno avvolte nel bagliore delle loro facciate, o che rischiarano il cielo notturno con le lucenti trasparenze dei loro uffici perennemente illuminati - rappresenta nel modo più esplicito il potere delle aziende.
Le grandi imprese che aprono una sede in una di queste torri lo fanno prima di tutto per una questione d'immagine, parola magica e affascinante che per molti riassume tutto quel che siamo in grado di conoscere del mondo in cui viviamo. Certo, lo fanno anche per offrire buone condizioni di lavoro ai loro impiegati. Ma anche queste sono una questione d'immagine. Gli open space non sono luoghi di libertà dove lo sguardo può spingersi fino all'orizzonte attraverso vetrate immense: sono luoghi dove ognuno è prigioniero dello sguardo degli altri, in un ambiente rigorosamente gerarchizzato come quello aziendale. Non a caso gli alti dirigenti hanno uffici separati.
I musei, invece, concepiti come opere d'arte, tendono a mettere in secondo piano gli oggetti, le collezioni e le mostre che ospitano. I turisti sono davvero interessati a quello che vedranno al Guggenheim di Bilbao? Oggi un museo nuovo non è solo la struttura creata per esibire degli oggetti artistici o storici, è il piatto forte della mostra.
Dietro la polemica tra etnologi e amanti dell'arte scatenata dal musée du quai Branly di Parigi, inaugurato nel 2006, c'era un altro dibattito, implicito, sul ruolo dell'architettura. Il modo in cui un architetto museale decide come esporre gli oggetti rischia di essere soprattutto un modo di interpretarli. Immergere dei manufatti africani nella penombra, per esempio, vuol dire suggerire qualcosa di vago e ineffabile più che esaltarne il valore estetico.
C'è chi parla di "cultura del progetto" per descrivere gli architetti che si contendono i progetti finanziati dallo stato, dagli enti locali o dai privati. Esaminando le proposte dei diversi partecipanti ci si accorge subito che, oltre a fornire i dati tecnici dell'appalto, tendono a enfatizzare il significato dell'edificio progettato.
È inevitabile. Immaginate cosa succederebbe se si chiedesse ai romanzieri o ai saggisti di commentare i loro libri per ottenere il permesso di scriverli: sarebbe il trionfo dell'eloquenza! È proprio questa la condizione degli architetti. Inutile stupirsi, quindi, se nei loro progetti s'insidia pericolosamente la metafora. Le polemiche sull'importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un'epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell'architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala. Che sia locale o globale, il contesto è solo il pretesto per creare metafore che hanno come unico referente l'architettura stessa. Per dirla con Rem Koolhaas: "Fuck the context!".
Il mondo sta diventando un'immensa città e il potere demiurgico dell'architetto è un segno dei tempi. Esegue un appalto, certo, ma questa è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza. La retorica dei suoi discorsi serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l'ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia, forse ne è addirittura l'espressione più spettacolare e, a volte, sfarzosa.
Capire dove ci sta portando il cammino della storia, naturalmente, è un'altra faccenda. La questione degli alloggi offre un esempio di questa incertezza. In Europa, in particolare in Francia, è apparsa la categoria dei "senza fissa dimora", più numerosa di quella dei disoccupati. Tra i senzatetto ci sono infatti persone che lavorano ma non guadagnano abbastanza per pagarsi un tetto. Chi invece ha un alloggio e un lavoro deve adattarsi a una forma di crescita urbana che spesso lo condanna a ore di spostamenti quotidiani, in una città ormai priva di senso urbanistico.
A confronto con il nostro tempo.
Quando un luogo è colpito da una catastrofe, le unità anticrisi entrano in azione per fornire alle vittime un alloggio provvisorio. In Europa la maggior parte degli immigrati irregolari, e molti di quelli in regola, vive in condizioni abitative terribili. In Francia ci sono stati molti tragici incidenti in edifici residenziali che non rispondevano alle norme minime di sicurezza.
Appena scoppia un conflitto nel mondo, la televisione ci sbatte sotto gli occhi case in rovina, esodi di massa, campi di rifugiati. Ed è evidente che in tutte le grandi città del pianeta la frattura tra i più ricchi e i più poveri si esprime in termini geografici e architettonici. Le baraccopoli che credevamo di aver eliminato negli anni sessanta hanno ricominciato a svilupparsi. La metafora della giungla fa ormai parte dell'attualità, ma la cosa sembra non colpire nessuno.
Al tempo stesso la smania di costruire si manifesta un po' ovunque, in particolare nei paesi emergenti: in Cina spuntano senza sosta edifici giganteschi, ma l'architettura fatica a seguire il ritmo sfrenato dell'urbanizzazione e della demografia. Mi tornano in mente le magnifiche e spaventose immagini del bel film di Gianni Amelio La stella che non c'è.
Un altro problema è come conciliare gli eccessi dell'architettura e il risparmio energetico, che è diventato una priorità ufficiale anche nei progetti edilizi. I cosiddetti edifici "intelligenti" divorano enormi quantità di energia.
È strano: l'architettura è il mestiere che più di tutti deve fare i conti con i problemi del mondo, ma al tempo stesso ne è sopraffatta. Li insegue senza mai riuscire a controllarli. I "grandi architetti" sono più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta (e chi potrebbe rimproverargli quest'ambizione?) che dall'idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall'urbanizzazione mondiale.
L'esempio di Le Corbusier dovrebbe spingere alla prudenza: il maestro, con il suo ideale dell'alloggio autosufficiente, il suo rifiuto della città storica e la passione per la tabula rasa, ha fatto molti danni. Oggi i suoi testi, insieme ad altri sogni, sono diventati quei "grandi racconti" utopici di cui Jean-Francois Lyotard celebrava la scomparsa. Ma è forse un motivo per ascoltare solo le sirene del liberismo, il cui "grande racconto" sembra altrettanto malmesso?
Sarebbe bello se gli architetti rifiutassero di presentare progetti che, in fondo, sono di seconda mano. Se avessero le loro opinioni e le esprimessero. Se si decidessero a prendere la parola. Se i più famosi non si limitassero a fare l'esegesi delle loro opere e a esprimersi con grande retorica, ma formulassero delle proposte sugli alloggi in città, su come affrontare l'emergenza pensando anche sul lungo periodo. In altre parole, se fossero loquaci quanto gli intellettuali che su questi argomenti hanno accumulato più chiacchiere che esperienza. Più ammiriamo gli architetti e più speriamo che riescano a liberarsi dalla cultura del progetto, da una forma di pensiero "a breve termine" imposta dal consumismo. E che tornino a essere dei visionari del mondo.
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