venerdì 27 agosto 2010

Utopia e interesse


La rivoluzione liberale, sul modello di quella tentata da Margaret Tatcher in Inghilterra o da Ronald Reagan negli Stati Uniti, intesa come liberazione dell'economia dallo stato, privatizzazione dei servizi pubblici, liberalizzazione di ogni settore non strategico, riduzione delle tasse e attenuazione del peso dello stato sul cittadino, sembra una chimera lontana e improbabile in Italia. Anche se nel nostro paese, a detta di molti, non solo dello schieramento del centro-destra, sarebbe assolutamente necessaria.

Necessaria - come scrive ad esempio Giuseppe Gallo - per "ripulire il paese con il necessario pugno di ferro dai mali incancreniti da tempo che ne arrestano lo sviluppo e il dinamismo politico-economico. Quali sono questi mali? Un apparato statale pletorico e parassitario tanto al centro quanto alla periferia (...) e un’asfittica presenza nei punti nevralgici dei processi decisionali di tante grandi e piccole lobby che premono sui governi e sugli enti locali per difendere i propri interessi: le lobby dei produttori del latte, delle telecomunicazioni, delle banche, delle assicurazioni, dei piloti dell’aeronautica, dei magistrati, dei giornalisti, e chi più ne ha più ne metta. Poi, ci sono gli altri mali: un capitalismo affaristico sprovvisto di senso della nazione, un sindacalismo corporativo che s’oppone a qualsiasi innovazione, un sistema fiscale punitivo e rapace, un sistema scolastico e universitario senza eccellenze, eccetera, eccetera."

Nonostante fosse uno dei suoi principali intenti dichiarati, neanche Silvio Berlusconi è riuscito ad attuare questa grande riforma liberale. Dopo quindici anni di attività politica e tre tentativi di governo (anche se quest'ultimo non è ancora terminato), che il cavaliere non fosse l'uomo giusto per attuarla diviene, più che un dubbio, una obiettiva e incontestabile constatazione. Forse perché, come scrive ancora Gallo, Silvio Berlusconi "sarà un populista, un demagogo, un sultano, un alieno, un trafficone, un tycoon insofferente alle leggi. Però non è quello che noi chiamiamo destra (e soprattutto non è uno statista, inteso come politico con un preciso progetto di stato e in grado di favorire le condizioni necessarie affinché si realizzi; ndnick). E, difatti, in Italia non abbiamo avuto neppure la forma del thatcherismo: la tanto temuta democrazia autoritaria, il pugno di ferro. Ma dove? Abbiamo avuto semmai una mollezza da tardo impero, ravvivata da periodiche quanto inconcludenti esibizioni di muscoli: un premier che certo sbraita quando avverte che è in pericolo la sua sopravvivenza ma che, per lo più, si sbraccia per piacere a tutti, per farsi «amare», e per questo le spara grosse (il milione di posti di lavoro) oppure annuncia faraoniche opere pubbliche di cui poi si dimentica (il ponte sullo Stretto), comunque si dimostra accomodante anche quando non deve (con Alitalia, ma pure col Vaticano: sulle staminali, sul testamento biologico...). Un premier che, come da manuale, sogna di passare alla storia da grande statista e perciò si mette a studiare le grandi riforme (il taglio delle tasse, l’abolizione delle Province, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto), e forse ci crede davvero, tuttavia le lascia tranquillamente a metà, quando addirittura non le fa cadere nell’oblio."

Il guaio è che, finita ogni residua speranza in Silvio Berlusconi, non pare delinearsi all'orizzonte italiano nessun'altro che possa riuscire a realizzarla (forse Sergio Marchionne è il personaggio pubblico che oggi sarebbe il miglior candidato a quel ruolo, ma solo come ipotesi teorica). Ammesso che un giorno qualcuno ci riesca. Perché nessuno è veramente disposto ad impegnarsi per una rivoluzione liberale e per uno stato leggero ed esente da favoritismi in Italia, un paese dove ognuno, nel suo piccolo, rivendica un qualche interesse personale particolare al quale non è disposto a rinunciare per nessuna ragione al mondo. Meno che mai per un concetto tanto astratto e lontano come quello di uno stato giusto e liberale.

L'unico argomento convincente potrebbe forse essere quello della riduzione delle tasse.
Dunque, forza Tea party!

2 commenti:

Polìscor ha detto...

E in tutto questo, il ruolo di Fini è quello di chi aveva capito tutto ed ha tentato di agire per il bene del Paese, giusto?
Ripeto: ma credete veramente a quel che scrivete?

nicknamemadero ha detto...

sarei curioso di sentire come giustifichi la tua inossidabile fede nel cavaliere, se non fosse che condivido quello che scrisse Flaiano: "la stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia".

PS: se non l'hai capito da solo leggendo il post, ti ribadisco che non penso affatto che Fini sia l'uomo della rivoluzione liberale italiana. Anche se ha il merito di essere assurto a simbolo di quanti credono che non lo sia nemmeno Berlusconi.