martedì 31 agosto 2010

Politica del cucù


La politica estera italiana ai tempi di Silvio Berlusconi sembra essere basata sulla particolare capacità del premier a stabilire un rapporto umano diretto e confidenziale con il suo interlocutore di turno, fuori dalle righe, dalle regole e da ogni schema precostituito, con - spesso - risultati sorprendenti e vantaggiosi. Come con Gheddafi. Come con Putin.
Ma il mio dubbio è se questo peculiare modo di concepire la politica estera, aldilà dei presunti vantaggi materiali, abbia un eccessivo costo in termini di credibilità, immagine, prestigio e peso internazionale del paese. E questi sono elementi anche più importanti e fondamentali in termini di riscontro positivo all'estero - anche dal punto di vista pratico - per il paese. Siamo sicuri che, alla fine, il saldo per l'Italia sia comunque positivo?

Scrive Peppino Caldarola:

"La politica estera italiana è diventata una delle variabili del protagonismo berlusconiano. Ogni visita di stato, ricevuta o ricambiata, offre solo lo spettacolo dell’esibizione di straordinari rapporti personali. La “politica del cucù” prevede che ogni ospite sia sempre il miglior amico. Ogni stagione cancella quella precedente. Berlusconi è guerriero con Bush e pacifista con Obama, laburista con Blair e conservatore con Sarkozy e Merkel. La Farnesina è diventata un outlet in cui il compratore estero viene accolto con sorrisi e pacche sulle spalle nella speranza che compri qualcosa. C’è stato un tempo in cui questo paese aveva una politica estera. Stava in Occidente e dialogava con l’Est. La politica estera berlusconiana è volubile come il mercato dei saldi a fine stagione. Ogni ospite si sente dire quel che desidera ascoltare, si tratti di un rais arabo o del premier di Gerusalemme. L’Italia non fa domande, non chiede garanzie, non importuna gli ospiti. Se poi vengono qui facciano e dicano quel che gli pare. L’Occidente, l’Oriente, l’Islam, il Cristianesimo, i diritti umani sono tutte mercanzie di un mercato planetario. Il cliente ha sempre ragione. L’importante è che vada via con un sorriso, soddisfatto o rimborsato. Avanti un altro “miglior amico”. C’è posto per tutti."


Certamente l'interesse pratico e utilitaristico sono il vero e principale obiettivo di qualsiasi rapporto diplomatico per qualsiasi paese. Quello che ancora non riesco a capire è se sono io a non comprendere la grandezza in politica estera del nostro premier o se sia lui a sopravvalutare le sue capacità personali. Anche se mi auguro che l'ipotesi corretta sia la prima.

Tuttavia è innegabile che il cavaliere – come rivendica lui stesso con orgoglio – abbia apportato una svolta nel modo di concepire e condurre la politica estera del paese, basata apparentemente tutta – o almeno principalmente – sulle sue capacità istrioniche e di rapporto molto diretto e confidenziale, fuori da ogni regola e ogni protocollo formalistico, con l’interlocutore di turno. E’ innegabile che questo approccio molto personale abbia talora comportato un sorprendente successo personale, come nel caso del rapporto con Putin o con Gheddafi. Tuttavia il dubbio – a mio avviso lecito – è se questo modo ‘personale’ di condurre la politica estera sia veramente vantaggioso, soprattutto a lungo termine, per il paese. Perché essere simpaticamente sui generis come fa lui, il prediligere i rapporti con personaggi obiettivamente scomodi, l’apparente mancanza di una politica estera definita e stabile per essere ‘amico di tutti’, temo possa comportare in realtà svantaggi tali da pregiudicare molto anche quei presunti vantaggi immediati che, tra l'altro, potrebbero rivelarsi più sulla carta che reali.

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