martedì 17 marzo 2009

IL PAESE NORMALE CHE VORREI (CON PHASTIDIO)

- E’ al contempo facile e difficile spiegare in che paese vorremmo vivere. Facile per l’elencazione delle caratteristiche della vita civile ed associata che desideriamo, difficile quando si tratta di individuare strumenti e modalità per conseguire tali obiettivi. L’Italia è un paese anomalo: troppo giovane per avere una cultura liberale consolidata, al punto che quella che ancora oggi residua in qualche glorioso partito-testimonianza è soprattutto di carattere post-risorgimentale. Al contempo, gli ultimi due o tre lustri hanno visto una tale corsa e rincorsa del sistema partitico (di destra, centro, sinistra) ad appiccicarsi sul paraurti dell’auto l’adesivo “Io sono liberale”, che il termine stesso appare ormai semanticamente così levigato (anzi, eroso) da essere ormai privo di autentica connotazione. Circostanza curiosa visto che, nella mappa delle percezioni dell’elettorato, non di rado il sostantivo “liberale” viene ancora censitariamente associato all’alta borghesia.

Personalmente, credo che la forma di liberalismo a cui ambisco sia quella in cui il sistema politico ed i suoi attori operano per determinare poche ma robuste regole, da applicare erga omnes, e senza la necessità (che di solito sorge un minuto dopo che una legge viene promulgata) di avere un inviluppo di esegeti ufficiali e semiufficiali della lettera della legge. In sintesi, regole e non discrezionalità. Vorrei anche vivere in un paese dove vige un principio di sana meritocrazia, altro termine follemente abusato e della cui citazione chiedo scusa ai lettori. Una meritocrazia che discende dal principio di responsabilità individuale, ma che non significa darwinismo sociale bensì la liberazione delle forze del mercato, della creatività e dell’intrapresa, temperate da un momento di sintesi verso la coesione sociale e la comunità. Che vuol dire regole di mercato “vero” ed un welfare universalistico e onnicomprensivo, non stratificato, segmentato, soggetto a sua volta ad esegesi e negoziato tra gli special interest e un potere politico che troppo spesso funge da broker e da esattore delle libertà. Ma sono talmente sognatore che vorrei che le risorse generate dalla liberazione di sviluppo ed intrapresa servissero per aiutare chi è rimasto indietro, non per condannarlo a quella “mendicità dell’inclusione” (i.e. la raccomandazione) che troppo spesso umilia i nostri migliori giovani (e meno giovani).

Stiamo vivendo un momento molto delicato: una crisi economica che non è una semplice recessione ma la rottura di un paradigma (americano, mi duole dirlo) di crescita fatta di debito, assenza di regole ed oligarchizzazione, e che ci costringe a misurarci con il mercato, o meglio con la rappresentazione tipico-ideale che ognuno di noi ha di esso. In Italia, dove una vera cultura di mercato non ha mai veramente attecchito, questa crisi è ancora più potenzialmente pericolosa, perché agevola il compito di quanti agitano lo spauracchio di tutto quello che di terribile può accadere quando si lascia il mercato libero di esprimersi. Peccato che le cose non stiano in questi termini, e che questa sia una mistificazione. Il modello statunitense degli ultimi vent’anni è crollato rovinosamente sotto il peso della commistione tra politica e mercato, che è poi lo snaturamento di quest’ultimo. Nessuna regolazione o una cattiva regolazione, molti interessi particolari che hanno guidato la mano del legislatore, il “trionfo dei crediti d’imposta” come lo definirei, funzionali a microgestire economia e società. Un mercato finanziario sano è l’architrave di una economia di mercato degna di questo nome.

Ma non bisogna pensare che un mercato finanziario “vero” sia un mercato privo di regolazione. Questo è l’errore metodologico in cui incorrono non pochi entusiasti neofiti del liberismo. Al contrario, serve una regolazione semplice e robusta, perché mai come nel mercato finanziario si concentrano gli interessi particolari di quanti rischiano di essere sconfitti dalla innovazione. Un libro che non promuoverò mai abbastanza, e che per molti aspetti considero il mio personale manifesto politico è “Salvare il capitalismo dai capitalisti”, di Luigi Zingales e Raghuram Rajan. Spiega che “i capitalisti affermati hanno paura della competizione, perché mina il predominio delle imprese esistenti e le costringe a riguadagnarsi la propria posizione ogni giorno. I mercati finanziari sviluppati spaventano, perché favoriscono a alimentano la concorrenza, equiparando i punti di partenza. L’Italia è un esempio da manuale della degenerazione del capitalismo in un sistema di élite, fatto dalle élite e per le élite. E rappresenta, al tempo stesso, un caso emblematico del ruolo decisivo svolto dal sistema finanziario in questa degenerazione. Non è sorprendente che in Italia tutte le nuove opportunità d’investimento, dai telefoni cellulari alle società di servizi pubblici neoprivatizzate siano sempre sfruttate da pochi privilegiati. Sono gli unici con il denaro e i contatti per farlo. E non sorprende neppure che quelle stesse persone si oppongano a uno sviluppo finanziario: andrebbe a intaccare proprio la fonte della loro rendita di posizione”
Più chiaro di così. E non ci sono solo i capitalisti: ci sono anche quanti hanno perso il lavoro a causa dell’innovazione e dei fisiologici cicli di vita d’impresa e di settore. Queste sono le persone a cui occorre dare una risposta liberale: l’eguaglianza di opportunità di accesso agli strumenti di protezione sociale finalizzati al loro ritorno al lavoro. Diversamente, queste persone e la loro disperazione resteranno facile preda di chi si oppone al cambiamento e punta a quella conservazione che in Italia sta rapidamente volgendo in declino, e mai come oggi avranno gioco assai facile le sirene della protezione che diventa protezionismo, che diventa diseguaglianza, che diventa arbitrio della politica e del più forte, con l’odiosa apartheid tra insider ed outsider a cui assistiamo ogni giorno, sulla pelle di chi è precario. Il paese normale che vorrei è questo.

Pensatemi come un individualista solidale che detesta i privilegi di un paese che sembra vivere di quelli. E pensatemi anche come una persona che desidera disporre della propria esistenza, anche nel momento della fine della medesima, e quindi come una persona che vorrebbe vivere in un paese dove le direttive anticipate di trattamento riflettano l’individuo e la sua autodeterminazione, e non una concezione statolatrica e ipernormata fatta di grottescamente burocratici adempimenti, notarili e non, e dove la mia volontà, in precedenza espressa, è destinata ad essere carta straccia. Perché, per citare John Stuart Mill, “su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano”. E al contempo consideratemi una persona che, pur favorevole in senso generale ad una normazione minima, non è favorevole ad essa al punto da pensare che si dovrebbe evitare una legge, e continuare a fare quello che da sempre fanno medici pietosi, nelle camere degli ospedali o nelle case.

Questo è il “paese normale” che vorrei. Sono un inguaribile illuso, ma illudersi a volte è un modo piuttosto proficuo per impiegare il proprio tempo.

Scritto da:

M.Seminerio - che ha inserito 1 articoli in Libertiamo.it.

(1965, Milano), laureato alla Bocconi. Dopo un’esperienza presso il Centro Ricerche sull’Organizzazione Aziendale dell’Università Bocconi ha lavorato presso istituzioni creditizie italiane ed internazionali. E’ analista macroeconomico presso l’Ufficio Studi di una S.g.r. Ha collaborato con le riviste Ideazione ed Emporion e con l’Istituto Bruno Leoni. E’ stato editorialista di Libero Mercato.

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