mercoledì 25 marzo 2009
INDESIT: CASO CURIOSO
Succede, il 5 marzo, che la Indesit (gruppo Merloni-Ariston, con quartier generale a Fabriano, sette stabilimenti produttivi, un proprio centro ricerche, logistica e attività di marketing per un totale di circa 5.000 dipendenti ) annunci l'intenzione di chiudere lo stabilimento di None, nel pinerolese, dove sono impiegati, tra operai e dipendenti, circa 600 addetti. Negli ultimi tre anni l’azienda aveva operato importanti investimenti, sia sul nuovo prodotto sia sugli impianti, per un importo complessivo di circa 60 milioni di euro di cui 20 proprio nello stabilimento di None. Nonostante questo i rappresentanti del Gruppo hanno ribadito che “malgrado gli sforzi, tuttavia, la domanda di mercato è stata molto al di sotto delle previsioni. Di conseguenza l’azienda non ritiene sostenibile la produzione in entrambi gli stabilimenti di None e di Radomsko, in Polonia. La decisione di mantenere lo stabilimento polacco a scapito di quello torinese è dovuto esclusivamente a criteri di competitività sui mercati internazionali”.
Succede che venga fatta una interrogazione parlamentare urgente da parte di deputati del PD piemontese, tra i quali l'On. Cesare Damiano (Responsabile Nazionale Lavoro PD e Capogruppo alla Commissione Lavoro), Anna Rossomando e Giorgio Merlo e sottoscritta dai parlamentari piemontesi del PD "al fine di scongiurare la chiusura dello stabilimento Indesit di None e la conseguente perdita del posto di lavoro per più di 600 lavoratori”.“Da notizie di stampa - aggiungono i Deputati piemontesi del PD - si apprende che la volontà del gruppo dirigente aziendale di chiudere lo stabilimento di None, mantenendo lo stabilimento di Radomsko, sarebbe anche legata alla possibilità di ricevere risorse statali in Polonia subordinate, tuttavia, ad un aumento della crescita occupazionale in quel Paese. Ne deriverebbe che la chiusura e il licenziamento di circa 600 lavoratori italiani corrisponderebbe ad un aumento delle assunzioni nello stabilimento in Polonia, con un vero e proprio ‘dumping sociale’ a scapito dei nostri lavoratori”.
Succede che venga indetto uno sciopero il 20 marzo, che vede la partecipazione di circa duemila lavoratori provenienti da tutti gli stabilimenti italiani del gruppo Indesit (ma anche dalle aziende dell'indotto e di altre fabbriche torinesi in crisi, con cartelli a forma di bara e la scritta ''Qui giace il made in Italy'' e scatole delle lavatrici coperte da scritte ''una vita per farla crescere e un gesto di avidita' per farla morire''), ma anche la massiccia presenza dei vertici del Pd, dall'ex ministro Cesare Damiano, al segretario regionale Gianfranco Morgando, alla sua vice Anna Rossomando, ai parlamentari che hanno tenuto alta l'attenzione politica sul caso Indesit (Calgaro, Boccuzzi, Merlo), il sindaco di Torino Sergio Chiamparino e la presidente della Regione Mercedes Bresso (che ha dichiarato:«Se None chiuderà avranno la guerra, se non chiuderà siamo pronti ad aiutare l´azienda e a chiedere al Governo iniziative a sostegno della domanda»), come pure i vertici di molte organizzazioni sindacali, come Giorgio Cremaschi e Maurizio Landini della fiom, Gianluca Ficco della Uilm e Anna Trovo' della fim nazionale.
Succede che Maria Paola Merloni, discendente della famiglia imprenditoriale e proprietaria della Indesit, è parlamentare del PD (nonché ex "ministro" per le Politiche Comunitarie nel Governo ombra del Partito Democratico fatto da Veltroni).
Solo un caso curioso? No,''L'apoteosi dell'ipocrisia. Coloro che oggi fingono di stracciarsi le vesti per l'Indesit di None -osserva Elena Maccanti, deputata torinese del carroccio - sono gli stessi che a livello amministrativo locale sono stati complici di quelle delocalizzazioni Fiat in mezzo mondo che hanno ridotto lo stabilimento di Mirafiori all'attuale stato di agonia. Questi 'candidi' politici torinesi che domattina saranno in piazza sono gli stessi che nei dibattiti accusano noi della Lega di essere retrogradi e razzisti quando parliamo di misure di protezione per i nostri lavoratori e per le merci prodotte nel nostro Paese''. ''Vorrei ricordare - aggiunge il segretario provinciale del Carroccio torinese e deputato del Carroccio Stefano Allasia - che il gran disastro per i nostri lavoratori e le nostre imprese e' cominciato guarda caso con l'ingresso della Cina nel Wto, sancito col sorriso sulle labbra da un entusiastico Romano Prodi presidente della Commissione Europea. Da quel giorno l'economia mondiale e soprattutto europea non e' stata piu' la stessa ed ora i nostri lavoratori stanno capendo sulla propria pelle quanto sbagliate e scellerate fossero quelle scelte fatte in nome di un globalismo senza regole, buono solo per far arricchire i soliti 'padroni del vapore' ''.
Che a volte sono deputati del PD.
Foto: Maria Paola Merloni
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2 commenti:
la storia delle delocalizzazioni dovrebbe far riflettere i politicanti italiani.
Per capire il problema facciamo l'esempio di un semplice negozio.
Ad oggi il negozio può contare su circa 100 clienti abituali. Settimana dopo settimana il negozio perde i propri clienti a favore di altre attività che trattano lo stesso prodotto/servizio.
A questo punto il titolare del negozio può scegliere due "opzioni di comportamento":
- può dire che tutti i clienti sono stupidi e cattivi perché hanno abbandonato il fornitore abituale;
-oppure può chiedersi perché tutti i clienti l' hanno abbandonato, facendo un esame a se stesso e cercando di capire dove sia l'errore imprenditoriale.
Lo stesso ragionamento deve essere fatto dallo stato sul motivo per cui le imprese delocalizzano:
possibile che tutti gli imprenditori siano cattivi e avidi e decidano di recarsi in altri paesi per malvagità? O dovrebbe, lo stato, chiedersi perché chi può se ne va dall' Italia e perché così poche imprese estere decidano di investire nel paese ?
Ahimé, nessuno si pone questa domanda, ben consapevole che la prima ipotesi di comportamento sia di gran lunga la più semplice e facilmente vendibile al popolo.
Jimmy
www.ultimathule.it
Gli imprenditori difendono, legittimamente, la propria attività ed i propri interessi. Probabilmente la maggior parte di loro, potendoselo permettere, vorrebbero non delocalizzarsi. Dunque lo stato dovrebbe cercare di creare le condizioni minime per favorire questa scelta (compatibilmente con le regole europee), o almeno di non renderla impraticabile.
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